Luca Gianinazzi HC Lugano EHC Visp Interview

Luca Gianinazzi in intervista: da giocatore a allenatore con cuore e intelligenza

In questa prima intervista per il blog di ABShockey, ci siamo seduti a fare due chiacchiere con Luca Gianinazzi, giocatore cresciuto nel settore giovanile dell’Hockey Club Lugano, in seguito giocatore di Swiss League, Coach U20 a Lugano e Coach di NL a Lugano.
Abbiamo voluto conoscere meglio Luca, proponendovi una lettura leggera ma piena di contenuti interessanti.

Ciao Luca. Grazie per il tuo tempo.
Abbiamo diversi argomenti da toccare, quindi ci sediamo, ci prendiamo un caffè e partiamo.

Tu sei stato giocatore. Hai voglia di condividere i tuoi inizi e la tua esperienza?

Ho iniziato a giocare a 3 anni. In realtà questo è successo a causa dei miei due fratelli più grandi, Teo e Marco, che hanno rispettivamente 7 e 5 anni più di me.
Io seguivo mia mamma che li accompagnava agli allenamenti, perché giustamente non potevo rimanere a casa da solo. Ho poi iniziato a stressare mia mamma perché anche io volevo giocare.

Dopo qualche tempo, la mamma ha ceduto e mi ha detto:

“Sai cosa? Ti metto sui pattini, tanto sei talmente piccolo che ti spaventerai e non vorrai più farlo.”

La sua strategia però non ha funzionato, perché mi sono subito innamorato dell’hockey. Tanto che poi sono stato l’unico dei tre ad andare avanti.
Tutto il mio percorso è stato a Lugano, dalla scuola Hockey fino ai Juniori.

In quegli anni le categorie non erano ancora chiamate U13, U15, U20, giusto?
Esatto. Mi sembra di ricordare che la sequenza fosse:
Bambino, Piccolo, Moskito, Mini, Novizi e Juniori,
che per me è stato Juniori Elite, quella che oggi sarebbe U20 Elite.

Ho fatto gli U20 a Lugano e durante il mio ultimo anno mi allenavo con la LNA (oggi National League).
Verso gennaio la squadra di Visp (che giocava nell’allora LNB, oggi Swiss League) aveva un paio di difensori infortunati, così sono andato in prestito da loro per qualche settimana giocando diverse partite.

Quell’anno inoltre ho esordito in LNA con il Lugano facendo 4 partite.
Oddio, giocate a tutti gli effetti forse una partita e mezza. Diciamo che sono stato sul foglio partita 4 volte.
Era la stagione 2012-2013, l’allenatore a Lugano era Larry Huras e il suo assistente era Patrick Fischer, che sarebbe poi diventato Head Coach la stagione seguente.

Poi cosa è successo dopo gli U20 Elite?

L’anno dopo ho firmato a Turgovia per una stagione. Ho iniziato giocando poco, poi sempre di più. A fine stagione c’era indecisione sul mio rinnovo nel club. Diciamo che avevo guadagnato un ruolo ma non era stabile. Interessante è che in quella squadra c’erano giocatori che ancora oggi giocano in Lega come Rajan Sataric (Kloten, National League 2024-2025), Leandro Profico (Kloten, National League 2024-2025). Con me giocavano anche Massimo Ronchetti e Benjamin Winkler (Ass.Coach Kloten, National League, 2024-2025). Quindi, quando sono poi diventato allenatore mi sono ritrovato diversi giocatori con i quali avevo giocato assieme a Turgovia.

Dopo Turgovia, ti dico che il mio obiettivo era quello di rimanere in LNB. E non era facile. Ricordo di essere stato due giorni a Bülach per allenarmi. L’allenatore era Tierry Paterlini (Head Coach Langnau National League, 2024-2025). Nel frattempo mi stavo guardando in giro, tanto che ad agosto me ne sono andato in Finlandia, nella Mestis (la seconda migliore lega del paese). Sono andato nella squadra del SaPko, nella città di Savonlinna, luogo che forse non conoscete ma è molto conosciuto nel paese perché ci sono diverse isole e cottage di vacanza, e si mangiano ottimi pesciolini (nota culturale e di promozione del turismo).

Sono partito senza un contratto con l’idea di fare un “tryout” e rimanere a giocare. Ho fatto il tryout e sono rimasto per circa tre settimane.

Devo dire che per me è stata un’esperienza a dir poco “mistica”. Tu immagina di entrare in uno spogliatoio e tutti parlano solo in finlandese. La prima riunione dell’allenatore è stato uno speech di 40 minuti nella lingua locale. Ora, anche se una persona non parla inglese, se ascolta 40 minuti di conversazione, qualche parola la riconosce. Lo stesso non si può dire per il finlandese.

Ricordo un episodio in particolare. Giochiamo un’amichevole contro la seconda squadra del JYP. Recupero il disco in difesa per impostare l’uscita di zona. Sento il mio portiere che inizia ad urlarmi contro. Sento una parola ben distinta “Tulle” ripetuta più volte. Capisco che vuol dire “tempo” e posso prendermela con calma. “Tulle” letteralmente significa “al fuoco”, ovvero grande pressione. Ho preso un check d’altri tempi (che Luca ci ha descritto come treno a 300 km/h). È sicuramente un modo per imparare la lingua.

La volontà di rimanere in Finlandia c’era. La lega allora come oggi non ha restrizioni sul numero di stranieri che possono giocare, ma non abbiamo trovato un accordo con il club. Un po' per tempistiche ma anche per le possibilità finanziarie del club. Sarei stato penso l’unico giocatore non autoctono a giocare nella squadra.

Wow. Intraprendente questa scelta di partire all’estero senza alcuna garanzia. Sentivi il bisogno di fare esperienza fuori dalla Svizzera?

Era un modo per inseguire il mio sogno, il mio obiettivo, che per me erano la stessa parola. Il mio sogno in quel momento era di giocare in National League in Svizzera. Quando sei giovane è tutto un po’ particolare. Giocavo negli U20, mi allenavo abbastanza regolarmente con la Serie A, poi arrivano 4 occasioni per giocare. Nella tua testa sei un giocatore di Serie A. Penso che anche per i giovani giocatori oggigiorno sia così, ed è normale e giusto.

Quindi nella mia testa mi immaginavo di andare a Turgovia in NLB, dominare nel campionato, per poi tornare a Lugano con esperienza e giocare. Il problema è: quanti vanno e dominano? Non molti. Anche perché il livello è molto alto. Quindi, quando sono andato, e con il passare della stagione mi sono ritrovato come sesto, settimo o addirittura ottavo difensore, mi sono reso conto che stava iniziando la vera battaglia per affermarmi come giocatore professionista.

Il mio sogno era vivo ma andava ancora concretizzato, non era ancora realizzato. La scelta della Mestis in Finlandia era arrivata proprio anche in quest’ottica. Facevo fatica a trovare posto in Serie B in Svizzera, in anni inoltre dove le squadre di B si stavano riducendo.

Rientrato dalla Finlandia mi sono chiesto cosa fare e così sono finito a Morges in prima divisione (stagione 2014-2015). Questo perché il Morges quell’anno aveva comunicato di voler fare una partnership con il Losanna e salire in Serie B. Avevo dunque trovato una via per arrivare all’obiettivo.

Quasi subito però è emerso che la relazione con il Losanna non avrebbe dato i suoi frutti. Ho dunque giocato una stagione per il club romando, dove tra l’altro ho conosciuto e giocato con Fabrice Eisenring (che è stato in seguito Head Coach della Nazionale Svizzera di Inline Skater Hockey dal 2018 al 2023). Siamo arrivati in finale per la promozione, persa dal Sion.

Sei poi rientrato in Ticino giusto?

Esatto. Sono tornato e sono andato a giocare a Biasca, squadra che arrivava l’anno prima da una collaborazione/fusione con il Chiasso e che stava gettando le basi per il progetto che sarebbe poi diventato Ticino Rockets.

Il primo anno gioco il campionato in Prima Divisione, con Luca Cereda come allenatore. Tra l’altro in quell’anno Luca Cereda fa una cosa folle, allenando sia noi del Biasca che gli U20 ad Ambrì, che si allenavano anche loro a Biasca. Pensa che c’erano i due spogliatoi uno vicino all’altro.

Quell’anno abbiamo vinto il campionato, in finale contro il Dübendorf. Poi le 3 squadre vittoriose di ogni regione si sono affrontate in un mini girone per aggiudicarsi il titolo di campione a tutti gli effetti. Ci siamo quindi sfidati, giocando la finalissima contro il Thun a casa loro, dove abbiamo vinto, guadagnandoci la promozione in LNB non solo a tavolino ma anche in campo.

L’anno seguente ho giocato la prima stagione di Swiss League con i Ticino Rockets, sempre con Luca Cereda come allenatore. Un anno speciale dove siamo partiti molto male ma poi siamo cresciuti ottenendo diverse vittorie importanti.

Per me personalmente è stata una stagione un po’ particolare. Ho trovato poco ghiaccio e ho anche finito l’anno andando qualche volta a Bellinzona con la licenza B.

In realtà il secondo anno a Biasca è stato il momento nel quale ho pian piano accantonato il mio sogno come giocatore. Ho realizzato dentro di me che non sarei stato un giocatore di LNA e ho iniziato a chiedermi che cosa avrei voluto fare della mia vita.

Entriamo nel tuo ruolo da giocatore, difensore. Hai sempre giocato in quel ruolo?

Sì. Faccio parte di quella generazione nella quale, se sei grande e alto, giochi in difesa. Da bambino ero grande rispetto agli altri compagni e non pattinavo particolarmente bene. È stata un’evoluzione naturale.

Non essendo mai stato il miglior pattinatore in squadra, nel ruolo di difensore ho dovuto compensare con altro. Penso avessi una buona comprensione del gioco, riuscendo ad inserirmi facilmente nel sistema. E poi giocavo duro (la parola che Luca ci ha detto in realtà è “fabbro”), soprattutto davanti alla porta.

Non era divertente giocare contro di me. Ricordo infatti nell’ultimo anno U20, ero il più penalizzato della lega. Se ci ripenso ora da allenatore, non penso sarei stato contento di aver avuto un giocatore come me, che causava tutte quelle situazioni di Boxplay alla squadra.

Ma in quegli anni però era anche visto come un segno di forza il fatto di giocare duro. Dava vigore alla squadra, suonava la carica e ti faceva guadagnare il rispetto nel gruppo. Oggi lo è sicuramente ancora, forse in modo meno marcato.

Parliamo di transizione da giocatore ad allenatore. Come si è evoluta?

Finita l’esperienza a Biasca mi sono detto “metto la priorità su qualcos’altro”. Ho pensato subito agli studi. Avevo fatto il liceo e in seguito conseguito un diploma come Personal Trainer.

Mentre giocavo a Biasca lavoravo anche in palestra, perché era un modo per me per arrotondare, coprire i miei costi e tenere vivo il mio sogno. Mi piaceva e mi appassionava, ma non vedevo una carriera lavorativa nel settore.

Ho pensato dunque di andare a Zurigo a studiare scienze della salute e intraprendere un nuovo percorso, continuando magari a giocare in prima divisione da qualche parte e mantenere la passione per questo sport.

In quel momento però mi chiama il Lugano, nello specifico Krister Cantoni (per tutti “lo zio”) e Marco Werder, chiedendomi di fare l’Assistant Coach U17. Lavoravo in una palestra a Lugano e ho subito pensato che, avendo dedicato diversi anni ad inseguire l’obiettivo come giocatore, posticipare di un ulteriore anno l’inizio degli studi a Zurigo non avrebbe fatto molta differenza. Ho quindi accettato e iniziato ad allenare. Come vedi tutto un po’ casualmente.

Devo ammettere che però è sempre stato un po’ dentro di me. Già da ragazzino spesso mi sono ritrovato Capitano, oppure se c’erano delle responsabilità, queste finivano su di me. È qualcosa di cui mi rendo conto solo ora a posteriori.

Quindi faccio questa stagione U17, lavorando con Cantoni e Tuomo Kärki, che era lo Skill Coach.

Proprio grazie a Tuomo inizia ad entrarmi in testa l’idea di iscrivermi alla scuola di Coaching & Management di Vierumäki, in Finlandia. Una scuola prestigiosa dove, su tutte le candidature, prendono ogni anno una classe con soli 20/21 studenti scelti. Una classe élite selezionata insomma.

Inizio a fare la trafila, quindi telefonate, lettere, video di presentazione, interviste.

Mi prendono! Quindi ho trovato appartamento in zona e persino una squadra U18 B2 da allenare, tramite contatti. Insomma, già tutto organizzato.

Ma?

Andy, ho già capito dove vuoi arrivare (ride). Ti dico questo. Come vedi nel primo anno U17 a Lugano avevo già cambiato idea riguardo ai miei prossimi passi. Il pensiero degli studi a Zurigo si era trasformato nella strada del Coaching.

Circa due settimane prima di partire, una mattina presto, mi hanno chiamato il DS ed il CEO di Lugano. Mi hanno detto che sapevano che sarei partito per il nord, anche perché io avevo promesso loro che appena rientrato dai 3 anni di scuola, la prima squadra con la quale avrei parlato sarebbe stata proprio Lugano, vista anche l’opportunità che mi avevano dato.

Mi dicono che l’allenatore U20 canadese che sarebbe dovuto arrivare, avrebbe avuto problemi con l’ottenimento del visto. E aggiungono che un mio rifiuto sarebbe stato più che legittimo, ma che non sarebbe stato giusto non informarmi che avevano pensato a me come prossimo Head Coach U20 a Lugano.

Ho detto che avrei preso qualche giorno per pensarci ma credo che nel mio stomaco ho impiegato 4 secondi a decidere. Stavo andando a studiare 3 anni per poter aprire una finestra nel mondo del Coaching professionistico, finestra che mi si è spalancata davanti in quell’incontro.

Ho disdetto tutto in Finlandia e ho iniziato il mio viaggio sulla “panchina”, con gli U20, con Paolo Morini come assistente.

La tua storia è davvero entusiasmante da ascoltare. Come è andata con gli U20 Élite?

Ho iniziato davvero forte. Se non sbaglio abbiamo perso 12 delle prime 13 partite. Mancato poi i playoff per poco.

Il secondo anno siamo finiti secondi in regular season. Poi il campionato è stato interrotto e stavamo vincendo i quarti di finale contro il Ginevra.

Terzo anno, secondi in regular season, poi niente playoff causa Covid.

Quarto anno, secondi in regular season, e perso la finale di playoff best of 5 contro lo Zugo.

L’ultimo anno ho iniziato la stagione, poi ad ottobre mi ha chiamato la prima squadra, e gli U20 sono arrivati di nuovo in finale, anche in quel caso persa.

Alla tua prima esperienza, su 13 partite, perdi le prime 12. Come si vive dalla panchina?

Non ho un grande ricordo di quel momento. Si vede che non mi ha scottato abbastanza (ride).

Ti posso dire che il senso di responsabilità è tuo al 100% ed è importante che sia così. Penso due cose in questo senso, una il contrario dell’altra.

La prima è che secondo me il ruolo del coach è sopravvalutato. Io posso fare il mio “speech” o suonare la carica, ma poi sono i giocatori a scendere in pista ed il merito è completamente loro. Più che parlare di allenatore bravo o meno, è piuttosto quanto un allenatore è in grado di trasferire la propria esperienza ed i propri input.

La seconda è che, dall’altra parte, almeno per come la vedo io, il coach ha un enorme impatto come esempio. Il ruolo di responsabilità è amplificato così come quello di leadership e di esempio che proponi. Specialmente con i ragazzi. Conta cosa trasmetti e cosa lasci come allenatore, così come persona. La responsabilità allora non è solo tecnica ma anche umana.

Allenatore come direttore d’orchestra. Si può dire che il coach è prima di tutto un aiuto per i giocatori?

Penso che questo modo di vedere l’allenatore è cambiato molto nel tempo. Quando giocavo, la maggior parte delle volte l’allenatore era una figura più autoritaria. Non era in panchina tanto per aiutare, quanto per prendere decisioni. Noi lo seguivamo perché era lui che comandava ed era lui che infine aveva la ragione.

Oggi trovo che la direzione sia diversa (anche se non so quanto sia valida a livello generale). Io, coach, e tu giocatore siamo insieme e vogliamo ottenere un risultato comune. Non è un rapporto autoritario ma più una collaborazione/cooperazione. Io prendo le decisioni, ma entrambi vogliamo la stessa cosa. Quindi sarebbe senza senso andarci a scontrare dato che abbiamo uno scopo comune.

È sicuramente importante avere una buona comunicazione. Immagino che qualcosa durante gli allenamenti, prima delle partite o tra un tempo e l’altro bisogna pur dirla. È un parlare in pubblico a tutti gli effetti. Ci si deve formare per questo o viene spontaneamente?

Penso entrambe le cose. Da una parte è spontaneo. Credo che il segreto sia essere sé stessi. Se provi a rappresentare qualcun altro, un allenatore che hai avuto o semplicemente qualcuno che hai visto su “YouTube” fare video motivazionali, mettendoti davanti allo specchio cercando di copiarlo, a lungo termine questo non funziona e non è sostenibile.

Certo allo stesso tempo è fondamentale continuare a formarsi e prendere ispirazione o nuove idee. Per me è una parte importante. Al di là dell’utilità è per me appassionante vedere cosa fanno gli altri, così come leggere libri sulla leadership piuttosto che biografie di allenatori, sportivi di qualsiasi genere. Lo farei a prescindere dalla mia professione. La curiosità e la voglia di imparare è comunque un motore importante nella vita quotidiana.

Sono sicuramente uno studente molto appassionato del mondo dell’hockey, visto che parliamo di questo.

Ci siamo già ritrovati a confronto, parlando di hockey. Vedendo diversi tuoi blog andati in onda in America, possiamo confermare per tutti che tu sei un grande studioso dell’aspetto tecnico del gioco. Ce ne vuoi parlare?

Devo ammettere che veder come una squadra è messa in campo, che tipo di gioco applica e quali sono gli effetti che scatena è qualcosa che mi affascina. Prendi il campionato Svizzero. Nel 2025 ci sono 14 squadre in National League, con 14 sistemi di gioco diversi. E non hai un sistema di gioco giusto o sbagliato. Quindi capire perché si fanno determinate scelte o capire solo il perché alcune cose funzionano e altre no lo trovo estremamente interessante. Non nascondo che la parte tattica mi affascina. Ci lavoro molto e credo di aver messo una buona base e di continuare a lavorare su questo.

Il gioco dell’hockey è molto veloce e molto fluido, quindi è anche vero che diverse cose non entrano nel campo della tattica, ma sono delle continue ripetizioni. Penso a due squadre con un sistema di gioco diverso. Si osservano molte cose che sono simili. Il gioco è talmente veloce che dalla panchina non hai il tempo di chiamare il tuo Set Play, come ad esempio nel Football Americano o in altri sport. Anche questo è affascinante perché devi cercare di mettere in struttura un gioco che per natura non lo è.

Quindi tutto si riduce ad un bilanciamento tra tecnica e motivazione. Fino a dove puoi vincere una partita con la tattica, fino a dove puoi vincere solo con la grinta. E il modo in cui tu lo interpreti come allenatore, e il modo in cui tu sei.

Pensi che una delle due sfere prevalga?

Ho avuto allenatori più bravi sulla parte tattica e altri più bravi sulla parte motivazionale. Lo stesso allenatore non può piacere a tutti i giocatori.

A livello tattico, un allenatore arriva allo stadio ideale quando i giocatori non devono più riflettere. Ed è in quel momento che diventa complicato. Ti parlo a livello di esperienza personale. Oggi si lavora molto con i video, mostrando cosa vogliamo ottenere in una certa situazione. Non ti nascondo che questa parte mi affascina molto.

Il problema è che la clip che io ho visto 20 volte e conosco a memoria, la mostro in squadra e mi aspetto che il giocatore la faccia sua da subito guardandola 1 o 2 volte assieme, o che addirittura abbia lo stesso interesse. È follia aspettarsi questo. Come allenatore è bene che io mi ricordi di questo.

Per questi motivi è complesso rispondere su dove sia la bilancia quando si parla di importanza di tattica rispetto alla parte motivazionale.

È importante essere stato un giocatore per poter fare l’allenatore?

Non credo. L’hockey è abbastanza complesso e anche abbastanza di nicchia. Nel calcio, ad esempio, puoi trovare anche ad alti livelli allenatori che non hanno mai giocato. Anche se però fatico a credere che Mourinho, ad esempio, non abbia mai calciato un pallone.

Non credo sia fondamentale aver giocato a grandi livelli. Ovvio, servono ad esempio delle basi di pattinaggio anche solo per avere la comprensione di base del gioco. Aver giocato permette di comprendere le dinamiche del gioco o di una partita, vissute da giocatore. Io, per esempio, non ho mai giocato ad alti livelli. Sì, ho giocato in Serie B, ma paragonato ad altri allenatori che ho avuto, ciò che ho fatto come giocatore non è nulla.

Hai un’attenzione maggiore verso il ruolo che tu hai avuto come giocatore, riportato come allenatore. Per chiarire, tu sei stato difensore, tendi a mettere più attenzione su di loro?

Sempre meno. Il mio anno U17 facevo io il coach della difesa. Quindi era normale che lo facessi. Poi già con gli U20 e poi con la LNA questa cosa è andata scemando. Anche perché non alleni da solo ma il coaching stesso è un team. Devo dire che oggi mi sento a mio agio in tutti i reparti.

Mi hai detto prima che hai un diploma di personal trainer. Io ricordo quando giocavo che a partire dai 14-15 anni si scopriva la sala pesi, che era un po’ il mezzo di preparazione base per poi andare sul ghiaccio. Ora l’aspetto di preparazione è cambiato. Si parla di alimentazione, di allunghi, di yoga e meditazione, di Mental Coaching. Come ti rapporti nei confronti di questo mondo?

Sicuramente è cambiato tantissimo. Tutta la parte organizzativa è cambiata. Il settore giovanile oggi, rispetto a come lo abbiamo vissuto noi, sono come il giorno e la notte. Non lo dico per parlare in negativo rispetto a ciò che ho vissuto. Ma semplicemente perché oggi ci sono molte più conoscenze, più mezzi a disposizione e più allenatori formati nello specifico, e quindi sono stati fatti passi da gigante, anche se ho la sensazione che sia solo l’inizio di questa era.

Se penso alla parte skills o alla preparazione atletica, quello che i ragazzi ricevono oggi non ha paragoni rispetto al passato. E ti sto parlando 15 anni fa, non 40.

C’è anche più conoscenza rispetto a quale tipo di lavoro va fatto nel rispetto dell’età dei ragazzi. Io personalmente non mi sono più occupato in prima persona di questa parte da quando sono entrato con la Serie A. Già con gli U20 questo ruolo era più marginale, anche se continuavo a seguire le sessioni dei ragazzi. Piuttosto seguivo la pianificazione per capire come distribuire il carico di lavoro.

Anche gli stessi giocatori hanno più consapevolezza sull’importanza dell’essere pronti sia fisicamente che mentalmente.

Forse quando giocavo io, la sera libera si traduceva più facilmente in una birra con i compagni. C’era molta meno consapevolezza.

Mi è capitato recentemente di andare ad una cena con gli sponsor, che sono rimasti stupiti dal fatto che tutti bevessero solo acqua, senza che fosse imposto.

Oggi un allenatore può dare un giorno libero per recuperare sapendo che viene fatto. Questo era forse meno scontato qualche anno fa.

Anche qui l’equilibrio sta nel buon senso.

Ti faccio un’ultima domanda. Sei all’interno di un’intervista-blog per un sito che commercia materiale da hockey, in particolare bastoni. Quando guardo una partita, anche solo per piacere, l’occhio cade sempre su quale tipo di bastone un determinato giocatore sta usando. Credo sia una deformazione professionale inevitabile. Tu, riesci a seguire una partita da puro tifoso?

Non credo di sapere più bene cosa voglia dire guardare una partita da tifoso (Luca Ride). Non è il modo in cui guardo una partita. Penso che il bottone di rewind è quello che utilizzo di più. Anche a casa sul divano i figli. Ma non è qualcosa di cui devo sforzarmi per farlo succedere. È diventato un po’ parte di me nel tempo e di quello che sono.

Ovvio che se per lavoro mi ritrovo una mattina a guardare una partita di playoff in Finlandia, perché ho avuto un input sul fatto che una determinata squadra gioca bene una particolare situazione, tendo anche ad isolare la partita su ciò che mi serve senza necessariamente guardare il match in sé.

Che dire Luca, noi ti ringraziamo per il tuo tempo. Ci siamo divertiti, cercando una chiacchierata leggera per ascoltare la tua storia e la tua esperienza. Abbiamo capito che al di là della fede di un club, abbiamo parlato con una persona che ha una profonda comprensione dell’hockey e quindi ti auguriamo il meglio per il tuo futuro professionale!

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1 commento

Luca un grande uomo merita il meglio per la sua vita e la sua carriera 💪👏👏😘

Cleofe Soldini

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